Il trionfo del World slavery tour, immortalato sulle tracce di Life After Death, chiude un intero ciclo per la musica metal. Nella seconda metà degli anni Ottanta si fanno strada nuovi sottogeneri, il thrash metal in particolare, e i gruppi sperimentano sonorità futuristiche, che spezzano il classico binomio Fender (o Gibson) –Marshall.
I Metallica registrano Master of Puppets, il loro miglior disco e l’ultimo con Cliff Burton. I Queensryche pubblicano il futuristico Rage for Order.
I Maiden (soprattutto Adrian Smith e Steve Harris) non si sottraggono a questa sfida, sperimentano con i sinth per la chitarra e per il basso e danno vita all’ennesimo capolavoro dei golden years maideniani: Somewhere in time.
L’album è registrato ai Compass point studios di Nassau nelle Bahamas (basso, basso sinth e batteria) ed in Olanda ai Wisseloord studios ad Hilversum (chitarre, chitarre sinth e voce) e mixato ai gloriosi Eletric Ladyland di New York. Martin Birch introduce in maniera sapiente i suoni dei sintetizzatori.
Somewhere conferma ed estende la fama globale del gruppo, che per la prima volta fa capolino nella top 20 delle classifiche di vendita italiane. “Siamo giunti al massimo – dice Bruce nel 1988 – in alcune nazioni come la Germania siamo giunti al successo solamente con Somewhere in time. Ma siamo arrivati anche lì”.
L’uscita del long playing è preceduta dal singolo Wasted years (6 settembre ‘86), brano amatissimo dai fan (un coro maestoso ma orecchiabile ed un assolo trascinante) scritto dal solo Adrian Smith, che dimostra di avere raggiunto il pieno della maturità compositiva ed esecutiva.
Suoi anche il secondo singolo, “ Stranger in a strange land”, e la cavalcata “Sea of madness”.
Con Somewhere in time Harris rispolvera l’eredità del progressive anni Settanta inserendola in un contesto che rimane schiettamente heavy metal.
Con questo album i Maiden sperimentano nuove sonorità. Colpisce i fan e la critica l’introduzione dei sintetizzatori per chitarra in brani articolati e complessi, ma caratterizzati da linee vocali dall’impatto immediato, come ad esempio lo spettacolare brano d’apertura Caught somewhere in time.
Bruce Dickinson non collabora alla stesura di nessun brano. O meglio, il resto della band scarta una serie di suoi pezzi folk, ritenuti non coerenti con la storia dei Maiden e con il contesto futuristico dell’album. O più semplicemente “i pezzi sono stati scartati perché non abbastanza buoni”, come afferma Steve Harris nella biografia digitale inclusa nella versione rimasterizzata del 1998 di Somewhere in time.
Bruce si getta comunque con grande professionalità nell’ennesimo tour mondiale, stringe i denti in attesa di tempi migliori.
“Quando abbiamo inciso Somewhere in time – dichiara Dickinson in un libro-intervista di Francesco Adinolfi che fotografa il leg Usa del Seventh tour of a Seventh tour - cantavo per forza di inerzia. C’era qualcosa che non funzonava in me. Sarà che agli ultimi concerti ci veniva a sentire sempre meno gente, sarà che cominciavo ad avere alcuni problemi, ma non ce la facevo più. . L’album era uguale alle cose precedenti e mi sembrava di avere perso solo tempo. Non sapevo se continuare con questo mestiere o mollare tutto per mettermi a fare qualcos’altro”.
Ma il giudizio di Bruce non è invece condiviso da buona parte degli appassionati dei Maiden, che continuano a considerare Somewhere in time un piccolo gioiello, un capolavoro incompreso.
Il “somewhere on tour” si chiude nella primavera del 1987, in Giappone. Alla fine dello stesso anno viene pubblicato “12 wasted years”, filmato ricco di interviste, video e spezzoni inediti.
Per gli appassionati e i collezionisti italiani è da ricordare il bootleg Maidens back from hell, registrato il 16 dicembre 1986 al PalaTrussardi di Milano.