Le condizioni di salute mi impediscono ormai da oltre due mesi di partecipare a riunioni o assemblee e limitano anche le mie possibilità di lettura. Tuttavia, mi permetto egualmente di esprimere la mia opinione sul dibattito in corso su “Liberazione” come pure su altri giornali.
1) Per preparare la conferenza programmatica non sarebbe stato di per sé negativo partire da riunioni seminariali, in cui esprimersi, per dir così, a ruota libera (avevo espresso questa opinione in un
colloquio telefonico con Bertinotti). Sta accadendo, invece, una cosa ben diversa: il dibattito è stato lanciato senza che fosse fissato nessun quadro né una priorità dei temi da affrontare, senza fissare regole di una ragionevole par condicio. Di fatto, si è cominciato a discutere su tutto contemporaneamente - dalla violenza in generale all’uso dei caschi nei cortei .
Così si rischia di sollevare un grosso polverone e di fare ben poca chiarezza sui problemi storici e strategici che effettivamente si pongono.
2) Schematizzando al massimo: il ripudio sommario del Novecento, delle concezioni delle strategie e delle pratiche di tutte le correnti del movimento operaio indiscriminatamente è quanto di più antistorico si possa immaginare e non serve affatto allo scopo, cioè a individuare le effettive cause delle sconfitte di portata storica che sono state subite. Un discorso analogo lo si può fare a proposito della condanna astratta della violenza e della assunzione della non-violenza come canone universale, con un approccio che si potrebbedefinire metastorico o metapolitico. Facciamo qualche esempio. Si può pensare seriamente che i comunisti iugoslavi abbiano intrapreso una drammatica lotta armata perché ideologicamente convinti dell’uso della violenza? La verità è che dovevano scegliere tra assistere allo sterminio dei loro popoli o rispondere organizzandosi anche militarmente. Discorso analogo per i comunisti cinesi: non dovevano forse intraprendere l’operazione militare che è stata la lunga marcia e lasciarsi annientare? E nella fase cruciale della fine del ’46 dovevano assistere al soffocamento della rivolta di massa dei contadini e non prospettare quel rilancio della guerra civile conclusosi tre anni dopo con il rovesciamento del regime del Kuomintang?
Per venire ai giorni nostri, non abbiamo bisogno di ribadire le ragioni per cui siamo contro l’uso del terrorismo. Ma un popolo schiacciato da un’occupazione militare, dopo una guerra infame, ha o no il diritto di organizzare anche militarmente la propria resistenza? Abbattere un elicottero impegnato in azioni militari è forse terrorismo?
3) Le polemiche quali sono condotte contro concezioni e impostazioni del Novecento finiscono inevitabilmente col scegliersi bersagli polemici fittizi, “dimenticando” quali fossero concezioni e dinamiche reali. Esempio da manuale: lo stucchevole motivo ricorrente del rifiuto della presa del palazzo d’inverno rappresenta una negazione di quello che la rivoluzione russa è stata, cioè una della più grandiose mobilitazioni di massa, proletarie e contadine, nel corso della storia. Non è neppure originale perché vi hanno fatto ricorso i socialdemocratici da oltre ottant’anni a questa parte. Vorremmo poi sapere chi ha concepito «la conquista dello stato attraverso l’annientamento dei nemici». Forse lo stesso Bertinotti ha cancellato dalla memoria “stato e rivoluzione” di Lenin e scritti fondamentali dei suoi predecessori. Comesi fa a dimenticare che quelli che si volevano “annientare” erano gli apparati statali, strumenti della dominazione delle classi dominanti, e costruire istituzioni e organismi politici qualitativamente diversi e storicamente originali? Altro che conquista del palazzo d’inverno!
4) Non sarà chi scrive a sottovalutare l’ineludibilità dell’interrogativo storico sulla deriva dell’Urss postrivoluzionaria e, in forme specifiche, di altre rivoluzioni. Condannare lo stalinismo non è che un punto di partenza. Ebbene, su questi drammatici processi ci si limita, il più delle volte, a evocare le legittime preoccupazioni di Rosa Luxemburg, la quale, tra parentesi, era tutt’altro che contraria alla presa rivoluzionaria del potere. Rosa non ha vissuto che poche settimane dopo l’Ottobre e non ha potuto analizzare i processi successivi. Invece, questi processi involutivi sul terreno politico, culturale, economico e sociale sono stati analizzati da rivoluzionari russi già dagli inizi degli anni ’20 oltre che da studiosi come Deutcher e Carr. Su tutto questo ci si limita, tutt’al più a rendere qualche omaggio. Un cattivo esempio fuori dalle nostre file: in un recente documentario televisivo Paolo Mieli riconosceva la critica antistalinista di correnti comuniste, aggiungendo però che queste correnti riducevano tutto alla responsabilità di una singola persona. Egregio Mieli, si rinfreschi la memoria leggendo o rileggendo, oltre a Trotsky, per esempio Preobrajenski o Rakovski, prima di lanciarsi in valutazioni deformanti.
5) Dati i rapporti di forza su scala mondiale o regionale non è facile impostare oggi il problema del potere, cioè non della presa di un qualsiasi palazzo più o meno annerito dagli anni ma della sostituzione delle classi dominanti vecchie e nuove e della rottura dei loro apparati di dominazione. Ma sembra ormai diffusa la tendenza non a cercar di porre il problema nei suoi veri termini nel contesto contemporaneo, ma semplicemente a negare che esista. Così di strada non se ne farà molta per prepararsi a future, ineludibili scadenze. E a chi fornisce una lettura apologetica della stessa straordinaria esperienza degli zapatisti - i quali, peraltro, hanno iniziato con azioni armate - chiediamo: forse l’organizzazione democratica delle comunità del Chiapas permette di ignorare il problema di un potere statale centrale che continua a opprimere oltre cento milioni di messicani.
6) Siamo tutti d’accordo che i problemi politici e strategici esigono una prospettiva europea e cheè necessario sforzarsi di costruire un partito europeo di alternativa. Ma nel contesto attuale le scelte concrete potevano essere due: considerare essenziale una affinità programmatica e politica oppure allargare al massimo senza definizioni precise. Sembra prevalere la seconda scelta, tuttavia con l’esclusione di forze tra le più rappresentative. Negli anni scorsi e in particolare al forum di Firenze c’era stata una molto maggiore convergenza, pubblicamente espressa, su concezioni e metodi d’intervento, con la Lcr che con il Pcf. Forse oggi non è più così?
Comunque sia, una decisione come quella siglata a Berlino avrebbe dovuto essere preceduta
da convocazioni della direzione e del Cpn, a loro volta preparate da dibattiti in sede provinciale e
nei circoli. Non c’era nessun ostacolo a procedere in questo modo. Quello che chiediamo giustamente alle direzioni sindacali perché non cominciamo a farlo noi stessi?
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