domenica 3 maggio 2015

Iron Maiden. Una questione di vita o di morte


A trenta anni dalla fondazione del gruppo i Maiden, forti di una squadra di nuovo imbattibile, vivono una seconda giovinezza, una nuova età dell’oro.

Forse per questo, il primo marzo del 2006 la band si ritrova nuovamente nei Sarm Studios, a Londra, per registrare il successore di Dance of Death. Dietro il mixer, per la terza volta, Kevin Shirley.

Queste le sue impressioni a caldo, tratte dal sito Caveman’s diary, dopo appena una settimana di lavoro in sala d’incisione:”Sta andando alla grande – scrive il sudafricano - non ho mai preso parte ad una sessione di registrazione più divertente, per quanto riguarda i Maiden, un sacco di risate! Abbiamo registrato otto canzoni in una settimana e sono davvero bellissime. Heavy e più orientate sul progressive che negli anni recenti, ma allo stesso tempo con più groove rispetto a ciò che sento da molto tempo!”.

I lavori per il quattordicesimo album in studio dei Maiden procedono quindi in un clima rilassato e allo stesso tempo molto produttivo.

“Tra le registrazioni e il mixaggio – spiega Dave Murray ad Enzo Mazzeo di Metal Hammer Italia (settembre 2006) - abbiamo impiegato circa otto settimane, la metà di quelle inizialmente previste e prenotate…Un processo semplice e veloce, cosa che ha notevolmente giovato alla buona resa dei brani”.

A Matter of life and death viene pubblicato dalla Emi a fine agosto 2006 e ottiene una buona accoglienza da parte del pubblico e della critica specializzata.

“Non si tratta – scrive Fulvio Trinca nella recensione su Flash magazine - di una release immediata come Brave new world e Dance of death amplifica e sviluppa il filone drammatico e teatrale di Paschendale. (…). Un album che, molto più dei suoi predecessori, rinnova la proposta dei Maiden, pur non dimenticando tutte quelle che sono le peculiarità di una storia lunga 30 anni”.

L’analisi di Trinca è pienamente azzeccata. Nel loro quattordicesimo album in studio i Maiden sviluppano un approccio compositivo duro, progressivo e articolato, ma come sempre melodico. I testi si concentrano in primo luogo sulla tragedia delle guerre che hanno attraversato il “Secolo breve” e questo inizio di millennio.

E’ decisivo l’apporto di Adrian Smith, già autore con Harris la già citata e splendida Paschendale.

“All’inizio della nostra carriera – dice Smith a Mazzeo - tendevo a comporre materiale molto più semplice e diretto, probabilmente perché ero influenzato da band come i Thin Lizzy, che facevano della semplicità la loro arma migliore.

Steve, invece, ammirava gruppi come Yes e Genesis e ciò traspariva anche dal suo modo di comporre. Ebbene, col passare degli anni anch’io ho assorbito certe influenze e oggi posso dire di essere un compositore più maturo. Certe sonorità hanno ampliato moltissimo il mio spettro sonoro e credo che la musica dei Maiden ne abbia giovato”.

Chiaramente quando per i Maiden parliamo di influenze progressive il riferimento è alla struttura dei pezzi, ricchi di accelerazioni e rallentamenti e di cambi di atmosfera, più che alle sonorità tipiche dei grandi gruppi degli anni Settanta.

Ed in effetti, in A matter of life and death, ben sei pezzi su dieci vanno oltre i 7 minuti di durata e solo uno, il secondo singolo Different world, va al di sotto dei 5.

Questo brano, che apre l’album, è l’unico ad avere una struttura semplice e diretta. Una rivisitazione in chiave maiden della lezione di Phil Lynott e soci.

Almeno tre le minisuite: la durissima e ruvida Brighter than a thousand suns, sul tema del possibile olacausto nucleare, la harrisiana For the greater good of God – epicissima e sulla falsariga di The sign of cross – e The Legacy :l’alleanza.

Quest’ultimo pezzo - che inizialmente avrebbe dovuto dare il titolo al disco - parte da una introduzione medievaleggiante e semiacustica per svilupparsi dapprima in un metal roccioso e cadenzato alla Ronnie James Dio e poi in un intreccio tra le melodie delle tre chitarre e parti vocali altissime.

Tra gli altri brani sono senz’altro degni di nota These colours don’t run, classicamente maideniano, e The longest day - con un Dickinson che supera sé stesso – che racconta il giorno dello sbarco di Normandia.

L’album - forse in alcuni tratti troppo prolisso, ma senza riempitivi - costituisce senza dubbio un ulteriore passo avanti nella costruzione del suono di una band con tre decenni di storia.

Anche la scelta del primo singolo è anomala. The reincarnation of Benjamin Breeg comincia infatti come una sorta di Musical box dei Genesis per poi assumere un andamento cadenzato, che può ricordare i Metallica di Harvester of sorrow.

I Maiden sono talmente convinti della validità del nuovo lavoro che per la prima volta decidono di eseguire un album per intero, dall’inizio alla fine, nei loro concerti. In scaletta trovano spazio solo cinque classici maideniani: Fear of the dark, Iron Maiden, 2 minutes to mdnight, The evil that men do e Hallowed be thy name.

Il successo del tour è comunque notevole, con due sold out anche in Italia il 2 e il 3 dicembre 2006 al Datch Forum di Milano.

Grandissimo consenso ottengono anche i concerti italiani estivi del A matter of the beast tour 2007, soprattutto quello del 20 giugno con i Motorhead e i Machine Head allo stadio Olimpico di Roma.

E proprio all’Olimpico Bruce dice: ”Ci prendiamo quest’anno per costruire una piramide e ritorneremo l’estate prossima per presentare i pezzi più classici di Powerslave, Piece of mind e Seventh son of a seventh son”.