A
trenta anni dalla fondazione del gruppo i Maiden, forti di una
squadra di nuovo imbattibile, vivono una seconda giovinezza, una
nuova età dell’oro.
Forse
per questo, il primo marzo del 2006 la band si ritrova nuovamente nei
Sarm Studios, a Londra, per registrare il successore di Dance of
Death. Dietro il mixer, per la terza volta, Kevin Shirley.
Queste
le sue impressioni a caldo, tratte dal sito Caveman’s diary, dopo
appena una settimana di lavoro in sala d’incisione:”Sta andando
alla grande – scrive il sudafricano - non ho mai preso parte ad una
sessione di registrazione più divertente, per quanto riguarda i
Maiden, un sacco di risate! Abbiamo registrato otto canzoni in una
settimana e sono davvero bellissime. Heavy e più orientate sul
progressive che negli anni recenti, ma allo stesso tempo con più
groove rispetto a ciò che sento da molto tempo!”.
I
lavori per il quattordicesimo album in studio dei Maiden procedono
quindi in un clima rilassato e allo stesso tempo molto produttivo.
“Tra
le registrazioni e il mixaggio – spiega Dave Murray ad Enzo Mazzeo
di Metal Hammer Italia (settembre 2006) - abbiamo impiegato circa
otto settimane, la metà di quelle inizialmente previste e
prenotate…Un processo semplice e veloce, cosa che ha notevolmente
giovato alla buona resa dei brani”.
A
Matter of life and death viene pubblicato dalla Emi a fine agosto
2006 e ottiene una buona accoglienza da parte del pubblico e della
critica specializzata.
“Non
si tratta – scrive Fulvio Trinca nella recensione su Flash magazine
- di una release immediata come Brave new world e Dance of death
amplifica e sviluppa il filone drammatico e teatrale di Paschendale.
(…). Un album che, molto più dei suoi predecessori, rinnova la
proposta dei Maiden, pur non dimenticando tutte quelle che sono le
peculiarità di una storia lunga 30 anni”.
L’analisi
di Trinca è pienamente azzeccata. Nel loro quattordicesimo album in
studio i Maiden sviluppano un approccio compositivo duro, progressivo
e articolato, ma come sempre melodico. I testi si concentrano in
primo luogo sulla tragedia delle guerre che hanno attraversato il
“Secolo breve” e questo inizio di millennio.
E’
decisivo l’apporto di Adrian Smith, già autore con Harris la già
citata e splendida Paschendale.
“All’inizio
della nostra carriera – dice Smith a Mazzeo - tendevo a comporre
materiale molto più semplice e diretto, probabilmente perché ero
influenzato da band come i Thin Lizzy, che facevano della semplicità
la loro arma migliore.
Steve,
invece, ammirava gruppi come Yes e Genesis e ciò traspariva anche
dal suo modo di comporre. Ebbene, col passare degli anni anch’io ho
assorbito certe influenze e oggi posso dire di essere un compositore
più maturo. Certe sonorità hanno ampliato moltissimo il mio spettro
sonoro e credo che la musica dei Maiden ne abbia giovato”.
Chiaramente
quando per i Maiden parliamo di influenze progressive il riferimento
è alla struttura dei pezzi, ricchi di accelerazioni e rallentamenti
e di cambi di atmosfera, più che alle sonorità tipiche dei grandi
gruppi degli anni Settanta.
Ed in
effetti, in A matter of life and death, ben sei pezzi su dieci vanno
oltre i 7 minuti di durata e solo uno, il secondo singolo Different
world, va al di sotto dei 5.
Questo
brano, che apre l’album, è l’unico ad avere una struttura
semplice e diretta. Una rivisitazione in chiave maiden della lezione
di Phil Lynott e soci.
Almeno
tre le minisuite: la durissima e ruvida Brighter than a thousand
suns, sul tema del possibile olacausto nucleare, la harrisiana For
the greater good of God – epicissima e sulla falsariga di The sign
of cross – e The Legacy :l’alleanza.
Quest’ultimo
pezzo - che inizialmente avrebbe dovuto dare il titolo al disco -
parte da una introduzione medievaleggiante e semiacustica per
svilupparsi dapprima in un metal roccioso e cadenzato alla Ronnie
James Dio e poi in un intreccio tra le melodie delle tre chitarre e
parti vocali altissime.
Tra
gli altri brani sono senz’altro degni di nota These colours don’t
run, classicamente maideniano, e The longest day - con un Dickinson
che supera sé stesso – che racconta il giorno dello sbarco di
Normandia.
L’album
- forse in alcuni tratti troppo prolisso, ma senza riempitivi -
costituisce senza dubbio un ulteriore passo avanti nella costruzione
del suono di una band con tre decenni di storia.
Anche
la scelta del primo singolo è anomala. The reincarnation of Benjamin
Breeg comincia infatti come una sorta di Musical box dei Genesis per
poi assumere un andamento cadenzato, che può ricordare i Metallica
di Harvester of sorrow.
I
Maiden sono talmente convinti della validità del nuovo lavoro che
per la prima volta decidono di eseguire un album per intero,
dall’inizio alla fine, nei loro concerti. In
scaletta trovano spazio solo cinque classici maideniani: Fear of the
dark, Iron Maiden, 2 minutes to mdnight, The evil that men do e
Hallowed be thy name.
Il
successo del tour è comunque notevole, con due sold out anche in
Italia il 2 e il 3 dicembre 2006 al Datch Forum di Milano.
Grandissimo
consenso ottengono anche i concerti italiani estivi del A matter of
the beast tour 2007, soprattutto quello del 20 giugno con i Motorhead
e i Machine Head allo stadio Olimpico di Roma.
E
proprio all’Olimpico Bruce dice: ”Ci prendiamo quest’anno per
costruire una piramide e ritorneremo l’estate prossima per
presentare i pezzi più classici di Powerslave, Piece of mind e
Seventh son of a seventh son”.
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